Focus on Folorunsho, il gigante buono cresciuto nella Capitale
«Vedere uno stadio che esplode come il San Nicola fa venire i brividi»
Era il 18 dicembre 1999, un Antonio Cassano appena diciottenne faceva esplodere il San Nicola con un pazzesco gol che regalava al Bari il successo contro l’Inter; a rivederlo, pochi anni dopo, un brivido corre lungo la schiena di un bimbo romano che del calcio si va innamorando; quel boato, quel concentrato di passione pura è ancora vivo negli occhi di Michael Folorunsho, è il suo primo pensiero quando il Bari bussa alla sua porta:
«Vedere uno stadio che esplode così fa venire i brividi; se poi si pensa a come sono vuoti gli stadi al giorno d’oggi, capisci che piazza particolare è Bari. Questa chiamata ha significato tanto per me, dopo due anni in crescendo al Francavilla, durante i quali ho capito che forse potevo fare il calciatore sul serio. In realtà pensavo che passare dalla Primavera alla C sarebbe stato facile, invece all'inizio ho fatto davvero fatica, giocare con i grandi è tutto un altro calcio».
La strada per arrivare tra i "grandi" è stata lunga e impegnativa per il ragazzo di Tor Vergata:
«Ho cominciato nei campetti di periferia di Roma, andando dietro a mio fratello maggiore che giocava con i suoi amici; mi infilavo tra loro, prendevo tante botte, ma così mi sono formato. Poi i miei genitori ci hanno iscritto a scuola calcio e piano piano ho cominciato il mio percorso».
E poi capita che uno scout della Lazio incroci il giovane Micheal durante un torneo di fine campionato:
«Era una finale contro l’Ostia Mare, il mister mi venne a parlare prima della partita dicendomi di impegnarmi perché i biancocelesti avevano mandato qualcuno per osservarmi. Ero contentissimo, sapevo che dovevo accorciare i tempi se volevo raggiungere il mio sogno. Sono partito in prova con gli Allievi Nazionali e per fortuna è andata bene. Uno dei momenti più belli della mia vita è di certo la prima convocazione in Prima Squadra, in Coppa Italia a San Siro contro l’Inter. Indescrivibile per un ragazzo nato a Roma, tifoso della Lazio - una passione che mi ha trasmesso la mia famiglia -, cresciuto con il mito di Paolo Di Canio. Ricordo mia madre emozionata, tutti che piangevano dentro casa, una vera botta di felicità, me la porterò dentro per sempre.
Devo tutto alla mia famiglia, mi sono sempre stati vicini; se sono riuscito a rimettermi in gioco dopo tanti problemi che ho avuto e arrivare fino a qui è grazie a loro. Il tatuaggio che sento più mio è questo sul braccio destro, ritrae me e i miei nonni che giochiamo assieme al pallone».
Una grande forza fisica e un calcio potente e preciso le doti più in vista del giovane italo-nigeriano già da questi primi giorni di ritiro:
«Da bambino ero cicciotello, poi piano sono cresciuto in altezza, ma è sempre stata una mia dote la fisicità, come anche la capacità di calciare con potenza. E pensare che all’inizio non tiravo mai; ora se ho l’occasione non mi faccio pregare. Spesso la voglia di mettermi in mostra, unita a un fisico importante, ha contribuito a farmi passare per irruento, ma ora, con la maggiore esperienza, ho imparato a controllarmi. Ma di cose da migliorare ce ne sono e ce ne saranno sempre tante, non si arriva mai. Mister Cornacchini e tutto lo staff mi bacchettano e mi danno consigli per migliorare, ma gli stessi giocatori più esperti sono sempre pronti a consigliarti, si mettono a disposizione, sta nascendo qualcosa di importante».
«Se ho avuto problemi per il colore della pelle? Con me non attaccano certe cose, anzi più mi insultano, più mi carico; siano benvenuti gli insulti, se ti prendono di mira è perchè ti temono. Un sogno? Gol al debutto al San Nicola e vittoria della squadra; poi normale che tutti puntino ad arrivare il più in alto possibile, ma ora importa solo il bene del Bari».